Un viaggio introspettivo grazie a Vera Slepoj, nota scrittrice e psicanalista, quello che con garbo e competenza ha guidato i fortunati presenti al SAL di Catania, alla riscoperta della natura del vulcano Etna e della sua funzione terapeutica. Proprio dentro la pancia del vulcano , sotto la parte fisica visibile -tutto cio’ che ha costruito nel tempo- l’Etna custodisce la rappresentazione della nostra storia. Attraverso la stratificazione delle rocce, non ha evoluzione, ma trasformazione continua e costante, che ciclicamente si mostra con le scenografiche eruzioni. Il vulcano -per la Slepoj- rappresenta simbolicamente l’inconscio, custodendo al suo interno (proprio come l’essere umano) un mondo pulsante, non visibile, che non ci e’ dato incontrare, ma che possiede in se’ tutta la storia dell’umanita’. Anche negli umani, infatti, l’inconscio possiede la nostra storia, e quando il vulcano si manifesta in fondo ci parla, ed e’ solo questo che in superficie ci e’ dato scorgere. L’aspetto catartico che riguarda l’uomo invece, e cio’ che gli abitanti provano, non e’ il rapporto tra il terreno apparentemente arso, non levigato, ma proprio con l’aspetto pulsante dell’Etna; dormire su un terreno vitale non e’ cosa da tutti, e tale significato non puo’ tralasciarsi.
Non puo’ riscontrarsi in molti altri territori tale trasformazione continua, di cui e’ dato scorgerne la scenografica rappresentazione nei lapilli e nelle fontane di fuoco, ma che custodisce un vulcanico inconscio al suo interno. Chi sta sopra l’Etna, e cosi’i vigneti ed i suoi vignerons, sta in fondo dentro l’anima dell’Etna, corpo vivente, figurativamente pensante e che si fa ascoltare; cio’ obbliga i suoi abitanti a trasformarsi in continuazione. In questo senso il territorio etneo e’ terapeutico, perchè fa stare in equilibrio la mente con il corpo. Altro elemento di riflessione è la fisicità dell’Etna , ben visibile, nel senso che l’energia che sviluppa al suo interno comunica, con reticoli invisibili, con chi ci vive sopra. La violenza e l’aggressivita’ in atto nella nostra società, che supera le proprie disarmonie attraverso comportamenti violenti sempre piu’ evidenti, e’ il frutto della disgregazione di atavici sistemi, confini e regole. L’armonia con la natura e l’amore stesso, sono invece il risultato di qualcosa che ci allena a riconoscere nell’altro, e nell’ambiente che ci circonda, l’esigenza che questi esistano nella nostra vita, in fondo il superamento della fase dell’egotismo. Da cio’ nasce questo “inno all’Etna” , come forma terapeutica, nel rapporto tra i suoi abitanti e il territorio. Guardare all’Etna puo’ ricordarci quale e’ il nostro posto nella natura, ed insegnarci a rispettarlo e non, come spesso accade, ad ignorarlo. Chi produce vino alle falde dell’Etna, influenzato da questa energia, coltiva la capacita’ di accettazione dell’imprevedibilita’, spingendosi a coltivare le proprie viti arrampicate sui coni vulcanici, pur conscio, o forse no, che un giorno l’Etna potra’ decidere di manifestarsi, annientando in un sol colpo il lavoro di anni. E’ una meraviglia l’investimento di risorse su un terreno come questo, ed il rapporto simbiotico inconsapevole degli abitanti col vulcano, appare psicologicamente spiegabile.
Non trattasi di sacrificio, perche’ l’individuo come sua modalita’ lotta storicamente per vivere, e per questo l’umanita’ ha avuto la sua continuita’. Oggi la societa’ sembra implodere, non preoccupandosi della continuità. Chi vive ed alleva la vite eroicamente sull’Etna ha un idea di immortalita’, non di sacrificio. In fondo il vulcano fa metabolizzare il concetto di morte. L’Etna ha un rapporto di comuni intenti con gli abitanti, consente una serie di elementi emotivamente accessibili, oltre che pregiati, come i vini che vi si producono. Proprio spostando al vino le considerazioni, la Slepoj ricorda come i capelli umani, attingendo al profondo, fungono da collegamento con l’esterno, proprio come le radici della vite. Seby Costanzo, presentando nell’occasione l’anteprima di “Milus” 2020 di Cantine di Nessuno, ha dato in fondo prova concreta di come sull’Etna possono farsi vini diversi da uno stesso vitigno, tipici ma individuabili nelle proprie diversita’, interpretando correttamente le dinamiche del vulcano. Si tratta di un Etna Bianco Doc Superiore, da uve di carricante (80%) e da vitigni autoctoni a bacca bianca (20%), viti allevate a Milo in c.da Volpare.
Vinificato con pressatura soffice ed affinato per 12 mesi in tonneaux esausti di rovere da 500 lt. e quindi in acciaio per 6 mesi. Fresco, con spiccata acidita’, appare quasi un vino di montagna e di mare al contempo, verticale ma profumato, ed all’esame intenso, complesso e persistente. L’Etna, con le sue diverse esposizioni e caratteristiche pedo-climatiche, crea diversita’, per le variegata composizione lavica, per le diverse eruzioni nel tempo, per il contenuto minerale diverso, che donano ai “capelli” della vite, colori e sfumature giocoforza differenti. C’e’ un anima che pulsa a Milo. La lava e’ accogliente, le radici della vite -come ricorda la Slepoj- come i capelli umani, sono il legame con cio’ che ci circonda. L’uva rappresenta il comportamento, le radici sono la fonte vitale della vite, da sempre presente nell’iconografia religiosa. L’anima e’ costituita dal vulcano, parte piu’ antica della terra, sottovalutato dall’uomo che ripiega spesso sul fatalismo, ignorandone l’inconscio. I capelli la cui caduta -ahinoi- crea disarmonie (vedi Sansone!) sono la parte di congiunzione tra la radice, che in tal modo sta a contatto con la testa e l’esterno. Così le radici vanno all’interno del vulcano, hanno una diretta connessione con la materia, l’inconscio simbolico dell’Etna, facendo scaturire viti armoniche che producono, come nel caso di “MILUS 2020” un vino che non mira a corromperti, come farebbe un amante seducente che gioca sfruttando le nostre debolezze, ma che anzi appare promettere nel tempo una lunga storia d’amore e di comuni intenti.